Il nostro laboratorio di cucito è uno spazio per creare, per inventare, per colorare, cucire e ricamare ma non è solo questione di mani o di cose da fare.

Chi partecipa al laboratorio, infatti, si mette a sedere allo stesso tavolo. A volte si è in pochi, a volte invece bisogna stringersi perché non bastano le sedie. Se lo spazio fisico è poco, è grande la libertà che è data a ciascuno, è uno spazio familiare, in cui è spontaneo, mentre si lavora, cominciare a conoscersi, comunicare, ascoltare, interessarsi. Raccontarsi i giorni trascorsi, condividere il motivo per cui ognuno vi si ritrova, la fatica e le difficoltà sopportabili o pesanti, ben visibili o nascoste.

E’ un luogo “di tutti”, dove non ci sono distinzioni, steccati tra chi dà e chi riceve, non ci sono ruoli impermeabili, ma chi c’è mette in gioco se stesso senza rimane in disparte, senza stare a guardare. Si rimarrebbe delusi se ognuno contasse solo su quello che sa fare, sulle proprie capacità manuali e creative.

Dentro questa piccola stanza, dentro le nostre mani più o meno esperte, ci si ritrova un tesoro di possibilità e questa è la nostra meravigliosa e sorprendente ricchezza. Perché nessuno di noi può dire di essere arrivato, di essere in se stesso, un “prodotto finito”. Nessuno di noi è chiuso in un “ormai” ma è inevitabilmente proteso verso il nuovo, il futuro.

 

Ogni volta che prendo una stoffa e la penso un vestito, ogni volta che coloro un foglio bianco, ogni volta che un altro mi chiede “posso fare qualcosa, posso dare una mano?”… questo significa “rinascere”: quando continuo a plasmare quell’opera mai conclusa che io sono, superandomi e lasciandomi sorprendere”.

Queste le parole che la nostra amica Suor Stefania ci ha scritto dopo essere stata due mesi con noi e proprio con queste parole  vogliamo esprimere il senso  che per noi ha il laboratorio di cucito nel nostro centro per i disordini alimentari.

 

Il laboratorio è nato per caso, come spesso accade per le cose più importanti della vita; la mamma di una nostra paziente ci regala un’antica macchina da cucire e la Ditta Cucinelli ci invia i suoi preziosi tessuti e filati e noi, donne appartenenti alla generazione che pensava  che senza l’ago e il filo le donne  si sarebbero liberate, abbiamo riscoperto il piacere ed il valore dell’arte di usare la mano.

Ci sono molti studi inoltre, che hanno esaminato e descritto lo sviluppo di questa competenza dal punto di vista neurofisiologico e psicologico, ma forse va approfondito il significato della mano come un possibile strumento di comunicazione con il mondo; la mano come fautore di un linguaggio le cui parole sono i movimenti e i cui discorsi sono gli oggetti: la mano che “dice” i pensieri del cervello attraverso gli oggetti che produce, che urla le emozioni,  la mano che può “curare” il dolore  facendolo uscire per trasformarlo in  prodotto, che riempie di simboli le “cose” con cui  racconta le storie del cuore e della mente.

L’oggetto creato che diventa la parola, il racconto di sé, la porta d’ingresso verso la relazione facilitata  con l’altro. Non a caso le parole che richiamano il racconto sono “dipanare”, “filo”, “trama”, proprio per echeggiare  un concetto di continuità, sequenza, coerenza tra l’inizio e la fine: ecco che il fabbricare un qualunque prodotto secondo un piano estetico o funzionale aiuta a mettere in ordine pensieri potenzialmente disturbanti.

Il percorso del cucire quindi, funge da”navigatore” sulla strada della guarigione.

Il “fare” diventa cura.

Assunta Pierotti